Via Crucis
Partiti con l’intenzione di raggiungere l’Europa e mai arrivatici. Secondo l’UNHCR, il Mediterraneo centrale è stato e continua ad essere teatro di continui naufragi e incidenti: le persone morte o disperse nel nostro mare dal 2014 al 22 agosto 2024 sono state 30.224. Nel 2024, nei suoi primi sette mesi e mezzo, sono morte 1.320 persone. 1.026 di queste sono decedute o risultano disperse nella tratta del Mediterraneo centrale, quella cioè che porta in Italia. 821 persone sono morte per affogamento, 157 per cause non note, 61 per mancanza di cibo o acqua, 5 per incidente e due per essere troppo debilitate. Più di 50 erano bambini. La disumanizzazione delle loro morti, espulsioni, vite illegali sembra scontrarsi sempre di più con la nostra indifferenza, ma ognuna di queste vite è unica e pertanto universale e raccontarle sottolinea proprio questa evidenza che non riusciamo a spegnere.
Le diverse tavole di Daniele Pinni, come tante stazioni di una Via Crucis che sembra non avere una fine, mostrano l’intenzione di raccontare queste vite perse, paradossalmente senza metterle in scena, ma sostando e sbattendoci addosso la furia di un mare, di una tempesta, di un vento e con dei colori che non lasciano scampo di salvezza per quelle vite. La disposizione delle stazioni sembra solo alla fine lasciare un cielo più aurorale, di speranza e di approdo. Tutte le tavole, alcune delle quali recuperano cornici di un’antica Via Crucis, sono dipinte sulle coperte isotermiche dei migranti, sfruttandone la particolare iridescenza con rifrazioni che oscillano tra il blu delle onde marine e quell’oro del cielo che tende ad imporsi sul blu scuro del mare senza tuttavia riuscire a placarne la furia.
Racconta un giovane migrante testimone di una delle tante tragedie del mare:
«Eravamo disposti come bestie in due barconi. C’era di tutto. Io ero in una barca e nell’altra avevo un mio amico con il quale avevamo attraversato il deserto e vissuto tanto male. Improvvisamente scoppiò un vento forte e il mare si alzava sempre di più. La barca del mio amico in pochi minuti sparì».
Ecco: le diverse stazioni che costituiscono il cammino delle opere sembrano metterci davanti proprio quell’attimo di sparizione. Tutte sembrano voler trattenere quel momento tragico in cui la barca non c’è più perché risucchiata dal mare. Quei pochi attimi in cui il mare si chiude e cancella la barca piena di migranti, è come fissato e testimoniato null’altro che dal furore arcano di una concentrazione di forze sulle quali non si può niente.
Non ci sono figure umane. Se l’autore le avesse rappresentate forse non avrebbe fatto altro che creare una scena certamente vera ma – non so come dirlo – scontata. Costruiva dolore, drammaticità, provocava forse pietà, anche se quest’ultima ha iniziato ormai a scarseggiare tra noi. Invece così le dieci tavole ci appaiono come la tragedia fermata in dieci scatti senza possibilità di sentimentalismi e catturati soltanto dalla ferocia di una tragedia che si ripete nella nostra impotenza ma che nello stesso tempo denuncia la nostra apatica distanza. Ma dobbiamo riconoscere che le dieci rappresentazioni finiscono per risucchiare anche noi, semplici spettatori. Con una vividezza che ci contesta brutalmente, e da spettatori ci costituisce in corresponsabili della sparizione di quelle vite. Perché noi sappiamo che quelle forze non guardano in faccia nessuno e sappiamo per contro che possiamo fare qualcosa perché quelle forze non abbiano l’ultima parola, ma l’ultima parola sia una sola, e anch’essa non deve guardare in faccia nessuno: accoglienza.
Gli esseri umani non ci sono più e vi è soltanto la muta e nuda forza degli elementi naturali, anonimi, impersonali, dai colori impietosi e cinici. Sono degli assoluti sciolti, appunto, dagli umani espulsi non si sa dove, ormai in fondo al mare. Così le tavole ci fanno segno del tragico e basta.
Quello che può dire e insieme lasciar dire una composizione di questa fattura, oggi è un autentico dono per un contesto cognitivo e morale travolto da una terribile distorsione dei segni, dei sensi e dei significati. Le dieci tavole sono segni angoscianti ma non vinti e attivano i nostri sensi che non sono soltanto i classici cinque sensi legati per lo più (o così interpretati) a indicatori materiali. Attivano piuttosto anche sensi spirituali, quelli tipicamente umani legati alle situazioni limite che invocano significati veri e non surrogati moralistici o figli dell’emotivismo passeggero. Significati che rovesciano le nostre visioni dell’umano, dell’altro, della natura, della vita, del male e della morte.
Da un certo punto di vista le dieci tavole possono anche essere interpretate come una denuncia di quella sparizione dell’umano che abbiamo messo in atto ormai da tempo e in vari modi. Per questo esse invocano laicamente di mettere al centro l’humanitas e basta. Quella “comune umanità” che non vogliamo più ripiena di distinguo, di cifre, di gerarchie del noi e degli altri. Dieci stazioni che sono l’umile ma tenace invocazione a coltivare umanità.
Nell’ordine di disposizione, nell’ultima tavola-stazione sembra fare capolino una calma rasserenante e rassicurante, avviso – si spera – della calma di un approdo in un “porto sicuro”.
Forse. Ma per chi? Forse qualcuno ce l’ha fatta…
Lorenzo Biagi
Catalogo della mostra MIGRO – opere di Daniele Pinni – IUSVEducation.pdf
La rivista IUSVEducation è open access, on line, accessibile a tutti al sito www.iusveducation.it